[dropcaps round=”no”]C[/dropcaps]hoosy, mammoni, bamboccioni, sfaticati.
Sono solo alcuni degli appellativi denigratori con cui ci hanno descritto in questi anni. Ministri, sottosegretari, esponenti della pubblica amministrazione, e ora anche rampolli delle più ricche famiglie d’Italia, che, dall’alto delle loro sudate camicie di seta, si sentono in diritto e in dovere di dichiarare
“I giovani non troviamo lavoro perché stanno meglio a casa”.
John Elkann, nel fare queste dichiarazioni, probabilmente parla per esperienza, avendo conosciuto e toccato con mano la vita di chi parte da zero e, solo grazie al proprio impegno, alla propria fatica e dedizione, arriva a trent’anni, ad essere presidente di una delle più grandi aziende italiane, quella di suo nonno.
E allora, lo dica pure. Ma lo deve dire in faccia ai milioni di giovani disoccupati, laureati, che a casa non ci restano perché “ci stanno bene”, ma perché i loro anni di studio, il loro impegno, la loro fatica, il loro sudore (questi sì, veri), non sono spendibili in un paese in cui ciò che conta è il doppio cognome che porti o il reddito familiare che dichiari (o non dichiari).
Lo deve dire in faccia ai milioni di giovani che, invece, sono costretti a lasciarla la propria casa (dove magari si sta anche meglio), per continuare a studiare, per cercare lavoro, per realizzare, un giorno, più probabilmente all’estero, se stessi e i propri sogni.
Oppure lo deve dire alle migliaia di “idonei non beneficiari”, quelli che avrebbero voluto studiare (ci sarebbe da chiedersi perché, a questo punto) e che invece sono stati costretti a lasciare la propria università, la propria scuola, i propri sogni – Ma tanto a casa si sta così bene!
Lo deve dire in faccia ai milioni di giovani che, poveretti, non hanno avuto la “fortuna” di nascere in quel 10% delle famiglie che detengono il 50% delle ricchezze. A quelli che in curriculum non portano la credenziale di un cognome spendibile. A quelli che, per questi motivi, si vedono scavalcati nelle graduatorie, quelli che dietro di loro non hanno nessuno che “li spinga”.
Lo deve dire quelli costretti ad accettare qualsiasi forma di strano contratto creato dalla tanto osannata flessibilità. Lo deve dire a quelli che lavorano sottopagati o gratis. Lo deve dire a tutti quelli che hanno creduto alla favola che un giorno i loro sacrifici e le loro fatiche sarebbero valsi un lavoro e una vita degni di questo nome.
[dropcaps round=”no”]E[/dropcaps] lo deve a dire a noi, che nelle nostre battaglie quotidiane – chi per continuare a studiare, chi per cercare un posto di lavoro, chi per mantenerlo, chi per tornare a cercarlo – lottiamo, con le unghie e con i denti, per riacquistare quei diritti che, colpo dopo colpo, decreto dopo decreto, ci hanno sottratto a favore del profitto dei vari Agnelli d’Italia. A noi che vediamo il diritto allo studio assomigliare sempre più a un privilegio, l’accesso ai saperi sempre più elitario, il diritto al lavoro trasformato in un ricatto continuo, una lotta fra poveri per la sopravvivenza. Lo deve dire a noi, rappresentati dall’informazione malata come una categoria passiva, senza riferimenti, come un pastrocchio malriuscito di inconsapevolezza e mode. A noi, la generazione che si è formata all’indomani delle stragi di Capaci, socializzata a pane ed antimafia.
A noi che, se anche partiamo per posti lontani, portiamo l’Italia che vorremmo anche lì fuori, con il desiderio un giorno di tornare, per essere gli attori del cambiamento di domani. Viaggiamo e ci sentiamo cittadini europei, abbiamo imparato a fare mille lavori, tutti precari e ci siamo trovati affianco ai nuovi cittadini con origini africane, filippine o ecuadoriane, sfruttati, discriminati e denigrati, un po’ come noi, insomma. A noi, probabilmente condannati a una vita di precarietà, di contratti a scadenza, di affitti perpetui, di stage sottopagati. A noi che, però, nonostante tutto la crisi economica, nonostante una politica (quella di palazzo) degradata al peggiore dei giochi di ruolo, non ci arrendiamo. A noi che nonostante tutto vogliamo restare. Continuiamo a lottare, a invadere le piazze, a difendere i nostri diritti e contestare chi vuole sottrarceli. A rispondere a quelli che, come lei, giovane Elkann, non hanno neanche il pudore di tacere davanti all’immane squilibrio che avete creato, in questa società di disuguaglianze. E lo facciamo, caro signore, senza toglierci il cappello e chinare il capo, perché i tempi in cui la dignità era un diritto ereditario sono finiti.