Quali cambiamenti per la città nel futuro?
La pandemia ha modificato radicalmente molte delle nostre abitudini. Ha posto dei limiti ai nostri spostamenti, alle interazioni sociali e, senza dubbio, ha fortemente inciso sulla routine lavorativa dei più. Che si tratti di smart working in senso stretto – che il Ministero del Lavoro definisce come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro” – o di sue declinazioni, moltissimi lavoratori si sono trovati, in questi ultimi mesi, costretti a lavorare da casa, ad abituarsi a comunicare tramite meeting e call online, a ritagliarsi, nelle proprie camere, studi improvvisati e ad attrezzarli secondo le proprie possibilità.
L’adozione, in precedenza mai così estesa, di questa prassi ha aperto nuove prospettive e fatto emergere nuove preoccupazioni: la sua ulteriore diffusione è auspicabile? Il lavoro agile donerà maggiore libertà ai lavoratori, rendendo più vivibile la loro giornata, o si dimostrerà uno strumento che le aziende utilizzeranno esclusivamente a loro vantaggio, per generare profitti di cui i dipendenti non beneficeranno?
Indubbiamente poter non attraversare la città per raggiungere il proprio ufficio permette una più comoda gestione di propri impegni e una più facile conciliazione del tempo dedicato al lavoro con quello dedicato alle relazioni familiari e amicali, a passioni e interessi, alla cura della propria salute e della propria comunità; allo stesso tempo, però, rende più sottile la linea che separa le due sfere, mettendo a rischio il diritto di ciascuno alla disconnessione, all’irreperibilità, al rifiuto dello straordinario non pagato. Andrebbero quindi immaginate, nell’eventualità che lo smart working diventi una delle principali modalità di lavoro, forme di tutela che impediscano il valicamento di determinati limiti. Inoltre, andrebbe sempre messa in primo piano la volontà dei lavoratori garantendo loro la possibilità di concordare se e come ricorrere allo smart working.
L’assenza di un luogo di incontro fra colleghi, inoltre, porta inevitabilmente a una frammentazione delle comunità dei lavoratori che minaccia pericolosamente la possibilità di confrontarsi e organizzarsi al fine di rivendicare i propri diritti e che rende ben più difficile rendersi conto e opporsi all’esistenza di ingiustizie. Per di più, l’inesistenza di un ufficio fisico, sfocia facilmente nello scarico sul singolo di costi tradizionalmente assunti dall’impresa: quelli del wi-fi, della stampa e della scansione di documenti, del pasto, di elettricità e riscaldamento, quelli per l’attrezzatura ergonomica e quelli della sicurezza e dell’efficientamento energetico degli ambienti. Non possono essere i lavoratori a farsene carico.
Infine, l’eventuale abbandono da parte di un alto numero di persone degli edifici aziendali impatterebbe inevitabilmente sul tessuto delle città e soprattutto su quello di una città come Milano, in cui i quartieri centrali sono animati soprattutto dai lavoratori provenienti dalla periferia, dall’hinterland e dal resto della regione.
Se lo smart working si imponesse definitivamente, infatti, una volta superata l’emergenza sanitaria, le condizioni abitative della maggioranza dei cittadini spingerebbero probabilmente molti a cercare nuovi spazi di lavoro, meno distanti da casa, ma forniti di tutti i servizi utili.
Ciò potrebbe causare lo svuotamento degli attuali centri nevralgici dell’attività urbana portando a due differenti scenari. Nel primo queste aree ed i palazzi adibiti ad uffici che oggi ospitano, potrebbero finire per essere abbandonati a sé stessi con la conseguente crisi della rete di attività sviluppatesi intorno a loro. Nel secondo, invece, le stesse zone potrebbero tornare ad essere realmente abitate, ad essere attraversate non solo dalle 9 alle 18 ed a riacquistare un’identità non esclusivamente espositiva. Questo secondo scenario sarà possibile solo se tale processo di trasformazione verrà guidato dal Pubblico.
Allo stesso modo sarà importante non lasciare che siano gli interessi privati a determinare dove verranno situati i numerosi ambienti dedicati al co-working di cui probabilmente vedremo la nascita e quali caratteristiche assumeranno. Bisognerà, infatti, far sì che la spesa necessaria ad accedervi non sia sostenuta dai lavoratori e che questi siano accessibili a tutti, che la loro diffusione sul territorio sia capillare senza favorire nuovi fenomeni di gentrificazione o la comparsa di zone di serie A e serie B, promuovendo invece la trasformazione della città in un luogo in cui quei servizi che contribuiscono all’innalzamento della qualità della vita di ciascuno siano per tutti facilmente raggiungibili e che questa sia viva e vissuta nella sua interezza.
Si è ragionato, in questa primavera, del progetto di città a 15 minuti, una città in cui ogni cittadino è in grado di usufruire dei servizi essenziali senza allontanarsi più di 15 minuti dalla propria abitazione. Sarà necessario dunque approfondire questa proposta e renderla davvero attuabile.
La pandemia ha sicuramente cambiato le nostre vite in modo inaspettato, ma i cambiamenti non sono ancora finiti. Le nostre città si modificheranno, e il rischio di accentuare ulteriormente le disuguaglianze è altissimo, dobbiamo lottare perché questo non avvenga e ricostruirle insieme.