Adesione di spazi sociali e circoli Arci alla mobilitazione del 9 settembre.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Italo Calvino, Le città invisibili)

 

L’8 agosto a Bologna è stato sgomberato con inaudita violenza il Làbas, l’occupazione che dal 2012 ha riqualificato a beneficio del quartiere Santo Stefano e della città tutta l’ex caserma Masini, aprendola a progetti di mutualismo, socialità, accoglienza e cultura.
Dopo 20 anni di abbandono e incuria da parte delle istituzioni, quello spazio è riuscito a canalizzare diversi bisogni e desideri di una larga e maggioritaria fetta della città, diventando un vero e proprio bene comune animato da centinaia di cittadine e cittadini che hanno scommesso sulla partecipazione e su un modello diverso di socialità e condivisione.

Scriviamo in qualità di spazi sociali e circoli Arci impegnati quotidianamente in percorsi di inclusione, accoglienza, mutualismo, socialità e cultura similari a quelli di Làbas.

Pensiamo che quello che è successo l’8 agosto nella città di Bologna sia molto grave: gli sgomberi del Làbas e del Crash giungono al termine di una lunga stretta repressiva che, in nome di una fredda legalità che non fa rima con giustizia sociale, ha cancellato decine di esperienze autogestite e occupazioni abitative, accompagnando ciò a provvedimenti securitari anti-degrado e stigmatizzando negli anni i luoghi di socialità e aggregazione e le zone universitarie delle nostre città come aree da “bonificare”.

L’amara verità è che le amministrazioni comunali, dopo anni di tagli e compressione della spesa sociale, sono sempre più incapaci di rispondere alle domande sociali, demandando la loro gestione alla magistratura e alla questura.

Ai molteplici problemi sociali, alla povertà, alla mancanza di un lavoro tutelato e ben pagato, alla necessità di cultura e socialità accessibili, si è risposto e si continua a rispondere con la polizia.

Lo stato di diritto lascia spazio a quello penale, in barba ai diritti e ad una sana dialettica democratica dove si dovrebbe riconoscere cosa giova e cosa danneggia una città e la sua cittadinanza, cosa è giusto o ingiusto.

Così, sul tema degli spazi sociali, giorno dopo giorno, buona parte della politica e delle istituzioni non riescono più a comprendere e riconoscere il valore aggiunto in termini culturali, sociali e artistici che gli stessi immettono nelle città.
Basti pensare alle cronache delle ultime settimane, con lo sgombero di LUMe a Milano e quello preannunciato di Manituana – Laboratorio culturale autogestito a Torino.

Allo stesso tempo le priorità politiche vengono consegnate agli interessi economici di poche aziende e lobby che stanno ridisegnando il territorio urbano in loro funzione.

Lo sgombero di Làbas rientra all’interno di questa strategia: la restituzione dello stabile della caserma Masini alla Cassa Depositi e Prestiti, con l’evidente intenzione di farne un esercizio commerciale di lusso, verosimilmente un albergo, è l’esempio lampante di quanto detto sopra.

Lo sgombero dunque è doppiamente sbagliato: cancella un bene comune decisivo per la qualità della vita dei cittadini e d’altro canto rappresenta l’ennesimo regalo che il pubblico fa alle tasche del privato.

Emerge dunque una gigantesca questione democratica che chiama in causa tutti i sinceri democratici e tutte le esperienze sociali, politiche e culturali che resistono e che, sulla scorta di Italo Calvino, fanno durare e danno spazio a ciò che non è inferno nel nostro difficile presente: chi decide sulla città? La maggioranza delle persone o pochi che stanno in alto e vogliono speculare su ogni centimetro del territorio urbano?

Democrazia dunque, ma anche la necessità di rispondere alla progressiva negazione dei diritti di cittadinanza. Bologna è forse uno dei più chiari laboratori di sperimentazione di una nuova gestione della popolazione dove l’ultimo anello del girone di chi sta in basso, delle tante facce della povertà ed esclusione sociale, va lasciato nella sua condizione, criminalizzato e identificato come capro espiatorio. Il capolavoro dei poteri forti è proprio questo: saldare i loro interessi alla disperazione e alla rabbia della maggioranza sociale impoverita, pescando di volta in volta un nuovo nemico pubblico dalle fila degli ultimi. Un nemico che non merita l’accesso ai diritti di cittadinanza – il lavoro, l’abitare, l’istruzione, la salute – e che è destinato ai margini della società che al massimo può garantirgli l’elemosina sulla base di condizioni stringenti, come viene trattata l’accoglienza o il nuovo reddito di “inclusione”. Il colossale inganno della guerra tra poveri serve dunque a mascherare le disuguaglianze crescenti e la strutturale ingiustizia sociale.

Dietro la volontà di riaprire Làbas il 9 settembre, confermata da una grande assemblea di un migliaio di persone tenutasi proprio il 30 agosto, si giocano diverse battaglie che non toccano soltanto Bologna ma il Paese intero.

Riaprire Làbas, affermare la legittimità e la necessità dei beni comuni, significa iniziare ad invertire la preoccupante direzione che si sta prendendo su tanti fronti.
C’è bisogno di una risposta di popolo alla deriva autoritaria e securitaria delle istituzioni, che reclami e pratichi democrazia, uguaglianza e libertà.

Parole piene di significato che ogni giorno guidano l’azione dei nostri spazi sociali e circoli Arci che, con sempre maggiore fatica, rispondono anche agli effetti del decennio di crisi economica, dell’avanzata del privato e della ritirata del pubblico.

Una risposta di popolo che gridi a gran voce vecchi e nuovi bisogni incompatibili con le speculazioni, i profitti e la corruzione dei pochi, e che smascheri gli autori del teatrino della guerra tra poveri.

Vogliamo nuove politiche pubbliche volte a garantire i diritti di cittadinanza, strumenti concreti per la partecipazione dei cittadini alle decisioni delle amministrazioni, la cancellazione delle legge Minniti-Orlando, il riconoscimento dei beni comuni, una riforma e la democratizzazione delle Forze dell’Ordine e tanto altro.

Noi ci saremo dunque, non soltanto per evidenziare la solidarietà e la complicità alla battaglia per riaprire Làbas, ma anche per rispondere alle domande cruciali che abbiamo formulato poco sopra: è la maggioranza delle persone a dover decidere le priorità politiche utili al bene comune, nelle città come nel Paese intero.

Tutt* in piazza il 9 settembre!

 

Per sottoscrivere il documento di adesione potete scrivere ad info@ritmolento.it

Primi Firmatari:

Asilo Occupato – Aquila

Asu Padova

Centro Sociale la Resistenza – Ferrara

Circolo Arci Guernelli – Bologna

Enterprise – Avellino

LatoB – Milano

Nadir – Padova

RitmoLento – Bologna

Sparwasser – Roma

Ucronia – Foggia

Zona Franka – Bari