Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne e di genere. Da inizio 2024 a oggi in Italia i femminicidi, lesbicidi e trans*cidi sono stati 106.
Ci uccidono per strada, in casa, siamo molestate a scuola, nei bar, sul luogo di lavoro.
Non siamo al sicuro, mai.
Eppure, nell’ultimo periodo, la destra si è riempita la bocca della parola “sicurezza”. Con il ddl 1660, sulla scia di altri decreti precedenti simili, il governo ci propone la sua idea di sicurezza: da una parte incrementa tutele, licenze e fondi per le forze dell’ordine; dall’altra reprime e isola chi lotta per un sistema più giusto o chi da questo sistema è già escluso e deve resistere nella marginalità. Securitario e sicuro sono due concetti molto lontani tra di loro.
Tutto ciò avviene mentre il nostro Stato, i nostri soldi, finanziano il genocidio in Palestina.
Il genocidio si inserisce in un contesto internazionale di 56 conflitti in corso, il numero più alto dalla fine della seconda guerra mondiale, 19.000 miliardi di dollari spesi globalmente per uccidere contro 49 miliardi spesi per la pace1. I soldi pubblici vengono usati per mantenere e rafforzare la violenza capitalista, razzista, abilista, patriarcale.
Crediamo che la sicurezza sia altro.
Sicurezza è poter contare su una rete sociale solida.
È essere credute e tutelate quando denunciamo.
È investire sull’educazione all’affettività e alla sessualità, sui centri antiviolenza e i consultori, sui progetti per uomini maltrattanti.
È avere assicurata la materialità della propria esistenza, una casa, il cibo, la sanità e l’istruzione, senza dover cedere ai ricatti della violenza.
È avere fondi a sufficienza per avere garantiti questi diritti fondamentali.
La politica invece sta stanziando sempre più fondi per le forze dell’ordine, le guerre e il genocidio in Palestina, e l’unico modo che usano per rispondere alla crisi sociale ed economica dovuta alla mancanza di questi servizi essenziali è la repressione.
Ma noi dobbiamo disarmare il patriarcato.
Quelli che seguono sono solo alcuni esempi dell’idea distorta di sicurezza secondo il governo Meloni, e di cosa ci farebbe sentire davvero al sicuro.
Articolo 28
(Licenza, detenzione e porto di armi per gli agenti di pubblica sicurezza non in servizio)
L’articolo 28 autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio.
L’articolo autorizza gli agenti di pubblica sicurezza (carabinieri, agenti della polizia di Stato, della Guardia di finanza e del Corpo della Polizia penitenziaria) a detenere senza licenza arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualunque misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri, oltre alla pistola d’ordinanza.
Questo quando il possesso di un’arma da fuoco è un acceleratore della probabilità di femminicidio, perché non è solo uno strumento, ma è anche un fattore psicologico scatenante1: le donne minacciate o aggredite con un’arma da fuoco è 20 volte più probabile che vengano uccise, la presenza in casa di un’arma rende 6 volte più probabile che vengano uccise2. Il tasso omicidiario tra le persone che detengono legalmente un’arma è superiore alla media nazionale (0,75/100mila vs 0,52/100mila abitanti).
Un terzo degli omicidi in famiglia avviene con un’arma da fuoco, spesso con una delle 7 milioni di armi da fuoco legalmente detenuta da una delle 4 milioni di persone che hanno il permesso. Secondo l’osservatorio nazionale di Non una di meno l’arma da fuoco è la seconda causa del decesso (26%, 27 casi, dati 2023), legalmente detenuta in 12 casi (44%) e in possesso di guardie giurate, forze dell’ordine e militari in 4 casi (15%).
Noi immaginiamo un altro mondo.
A questa idea noi contrapponiamo un mondo senza guerre, senza genocidi, senza violenza di ogni tipo, senza soprusi. Un mondo in cui il patriarcato perda la sua arma più forte: l’egemonia culturale per cui quello che conta è il singolo, per cui è più importante essere sopra nella scala gerarchica rispetto a stare davvero bene, per cui bisogna essere al servizio di chi ha accentrato il potere e ligiamente obbedire, lavorare (a poco se lavoro produttivo, gratis se riproduttivo), e produrre classe lavoratrice da sfruttare.
Immaginiamo un altro mondo di solidarietà, di cooperazione, di comunità, di pari opportunità, di diritti, di autodeterminazione, di emancipazione, di libertà di scelta.
Questo è un mondo dove ci sentiremmo al sicuro.
Disarmiamo il patriarcato.
Articolo 10
(Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui)
L’articolo 10, modificato in sede referente, prevede norme volte a contrastare l’occupazione abusiva di immobili, introducendo il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (o delle relative pertinenze) e una procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la reintegrazione nel possesso.
All’interno del DDL sicurezza sono comprese pene più dure per chi occupa le case, mirando a colpire non solo gli occupanti ma anche tutte le realtà che portano solidarietà alle occupazioni e organizzano i picchetti antisfratto.
Tutto questo avviene mentre il diritto alla casa è sotto attacco in tutto il paese e in modo particolare in una città come Milano.
Il mancato accesso a una casa sicura è uno dei motivi per cui le vittime di violenza domestica fanno più fatica ad abbandonare una situazione di violenza. Per poterci sentire davvero sicurɜ non abbiamo bisogno della criminalizzazione delle occupazioni abitative, spesso l’unica soluzione per chi scappa da povertà e violenza. Abbiamo bisogno di un reale diritto alla casa, che garantisca effettivamente un tetto a tuttɜ, a partire dalle vittime di violenza.
Proposta di legge n. 272 del 2018
(Introduzione del trattamento farmacologico di blocco androgenico totale a carico dei condannati per delitti di violenza sessuale)
1. I condannati alla reclusione per i reati di cui agli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-sexies del codice penale possono essere sottoposti al trattamento farmacologico di blocco androgenico totale attraverso la somministrazione di farmaci di tipo agonista dell’ormone di rilascio dell’ormone luteinizzante (LHRH) ovvero di metodi chimici o farmacologici equivalenti.
2. Il trattamento farmacologico di blocco androgenico totale di cui al comma 1 è disposto previa valutazione da parte del giudice della pericolosità sociale e della personalità del reo, nonché dei suoi rapporti con la vittima del reato.
3. Il trattamento farmacologico di blocco androgenico totale è sempre disposto dal giudice nei seguenti casi:
a) recidiva;
b) qualora i reati di cui al comma 1 siano commessi su minori.
4. Nei casi di cui ai commi 1 e 3 il trattamento farmacologico di blocco androgenico totale è inserito in un programma di recupero psicoterapeutico, svolto a cura dell’amministrazione penitenziaria, che a tale fine si avvale dell’ausilio di centri convenzionati, pubblici o privati, che dispongono di professionisti specializzati in psicoterapia e in psichiatria.
5. Nel provvedimento che dispone la sottoposizione al trattamento farmacologico di blocco androgenico totale, il giudice deve indicare il metodo da applicare e la struttura sanitaria pubblica nella quale è eseguito il trattamento stesso.
6. Chiunque è stato riconosciuto colpevole, con sentenza passata in giudicato, dei reati di cui agli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies e 609-sexies del codice penale, può sempre chiedere di essere ammesso volontariamente al trattamento farmacologico di blocco androgenico totale di cui al presente articolo.
Definito “una cura democratica e pacifica” da Matteo Salvini, la prima volta venne proposta dalla Lega nel 2018. Il trattamento farmacologico di blocco androgenico totale, volgarmente chiamato castrazione chimica, sarebbe l’ennesima misura che punta alla creazione di carnefici-mostri, negando la radice culturale della violenza di genere e il legame più con il potere, che con il piacere fisico di chi commette una violenza sessuale.
La violenza di genere è un problema culturale collettivo, la cui soluzione non può che essere altrettanto pervasiva. Ogni persona deve assumersi le proprie responsabilità davanti a questo fenomeno, senza nascondersi dietro al fatto di non aver mai perpetrato attivamente violenza fisica.
Per fare questo c’è bisogno di istituire, obbligatoriamente, l’educazione sessuale e all’affettività nelle scuole di ogni ordine e grado. C’è bisogno di percorsi non solo rivolti a uomini maltrattanti, ma anche gruppi di formazione contro la violenza di genere rivolta agli uomini tutti, così che sia possibile alleggerire le vittime dirette di questa violenza anche dal ruolo educativo che, troppo spesso, viene loro affidato.
Articolo 22
((Disposizioni in materia di tutela legale per il personale delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco)
L’articolo 22, introdotto in sede referente, reca disposizioni concernenti il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Il beneficio è riconosciuto a decorrere dal 2024.
Tale beneficio non può superare complessivamente l’importo di 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento. È fatta salva la rivalsa delle somme corrisposte in caso di accertamento della responsabilità con dolo del beneficiario. Sono comunque previsti alcuni casi di esclusione della rivalsa con riferimento alle somme anticipate.
La disposizione reca altresì un’autorizzazione di spesa nel limite di 860.000 euro a decorrere dal 2024 e provvede alla copertura degli oneri.
Articolo 23
(Disposizioni in materia di tutela legale per il personale delle Forze armate)
L’articolo 23, introdotto in sede referente, reca disposizioni concernenti il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute personale delle Forze armate, indagato o imputato per fatti inerenti al servizio, nonché al coniuge, al convivente di fatto di e ai figli superstiti del dipendente deceduto. Il beneficio è riconosciuto a decorrere dal 2024. Tale beneficio non può superare complessivamente l’importo di 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento. È fatta salva la rivalsa delle somme corrisposte in caso di accertamento della responsabilità con dolo del beneficiario. Sono comunque previsti alcuni casi di esclusione della rivalsa con riferimento alle somme anticipate. La disposizione reca altresì un’autorizzazione di spesa nel limite di 120.000 euro a decorrere dal 2024 e provvede alla copertura degli oneri.
Gli articoli 22-23 del DDL 1660 riconoscono un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute, rispettivamente, da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria e dai vigili del fuoco, nonché dal personale delle Forze armate, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto.
A questi noi contrapponiamo la necessità, non solo di non tutelare chi in un sistema corporativo che nega una misura di tutela banale come quella del codice identificativo, ma anche di tutelare, invece, tutte quelle donne che, per disparità economica generata dalla questione di genere stessa, non possono affrontare processi che le rendano libere o emanciparsi dalla propria casa, spesso primo luogo di violenza.
Articolo 32
(Disposizioni in materia di forniture di servizi di telefonia mobile)
L’articolo 32, introdotto in sede referente, in primo luogo modifica l’articolo 30 del codice delle comunicazioni elettroniche (decreto legislativo n. 259 del 2003) e prevede la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede S.I.M non osservino gli obblighi di identificazione dei clienti, di cui all’articolo 98-undetricies. In secondo luogo, apporta novelle all’articolo 98-undetricies del codice delle comunicazioni elettroniche.
Nel dettaglio, con riferimento alla conclusione di contratti il cui oggetto sia un servizio per la telefonia mobile (contratti pre-pagati o in abbonamento), viene previsto che al cliente, che sia cittadino di Paese fuori dall’Unione europea, sia richiesto anche il documento che attesti il regolare soggiorno in Italia. Per il caso in cui il cliente lo abbia smarrito o gli sia stato sottratto, è necessario fornire copia della denuncia di smarrimento o furto.
Infine, al citato articolo 98-undetricies viene aggiunto il comma 1-ter, ai sensi del quale ai condannati per il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), commesso con la finalità di sottoscrivere un contratto per la fornitura di telefonia mobile, si applica altresì la pena accessoria dell’incapacità di contrarre con gli operatori per un tempo da fissarsi tra i sei mesi e i due anni.
L’articolo prevede la chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni per chi vende schede SIM senza osservare tutti gli obblighi di identificazione dellə cliente, tra i quali aggiunge il permesso di soggiorno nel caso di persone extraUE, e punisce anche chi sottoscrive un contratto telefonico per altrə con l’impedimento contrarre con gli operatori telefonici per un tempo tra i 6 mesi e i 2 anni. Questo innanzitutto sposta la pena su chi vende e su chi aiuta, mettendoci l’unə contro l’altrə, ma in maniera ancora più grave è una misura discriminatoria, isolante e pericolosa.
Al giorno d’oggi è praticamente impossibile vivere senza telefono: per trovare e mantenere un lavoro, e quindi una strada verso l’emancipazione economica; per trovare e accedere ai servizi, oltremodo necessari per chi non ha la cittadinanza; per costruire e tenere salda la propria rete sociale, che è uno dei bisogno fondamentali della persona, è che è l’unica davvero in grado di aiutarti, soprattutto in caso di violenza.
Sono le amicizie, gli affetti, la comunità a farci sentire al sicuro, è avere uno strumento per chiedere aiuto a farci sentire al sicuro. È una società della cura, dell’ascolto, della tutela, del sostegno, dell’autodeterminazione, delle relazioni a farci sentire al sicuro. Una società che accoglie e non isola.
Articolo 14
(Blocco stradale)
L’articolo 14 prevede che sia punito a titolo di illecito penale – in luogo dell’illecito amministrativo, attualmente previsto – il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo. La pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite.
L’art. 14 del DDL Sicurezza ridefinisce i blocchi stradali come degli illeciti penali: si tratta di una risposta all’intensificarsi di questo tipo di azioni operate soprattutto dai movimenti ambientalisti. Questo strumento è una pratica di disobbedienza civile nonviolenta, storicamente utilizzata dai sindacati e dai collettivi in lotta contro le grandi opere e in difesa del territorio.
Questo approccio tutela la frenesia delle strade e della produzione, a scapito però di una concezione di sicurezza che guarda alla cura dell’integrità del territorio.
Adottando un approccio transfemminista alla sicurezza, tutto ciò che porta attenzione alla salute della collettività e dell’ambiente non può essere condannabile.
La prevenzione è la prima forma di cura: rallentare per evitare l’esacerbarsi di danni ambientali, generare interruzioni della routine e della frenesia quotidiana per portare attenzione su questioni urgenti e riguardanti la collettività intera e, in prima istanza, la salute e le condizioni di vita di tutte le soggettività marginalizzate sono prassi che se ostacolate non miglioreranno la nostra sicurezza, ma la ostacoleranno.
Articolo 12
(Modifica all’art. 635 c.p. in materia di danneggiamento in occasione di manifestazioni)
L’articolo 12, introdotto nel corso dell’esame in sede referente, modifica il terzo comma dell’art. 635 c.p. al fine di prevedere un inasprimento delle pene per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o minaccia.
L’aggravamento delle pene previste per danneggiamento previsto articolo dall’art. 12 del ddl sicurezza – indirizzato anch’esso in particolare alle ultime azioni dei movimenti ambientalisti – adotta un approccio presentista. In questa prospettiva mettere al sicuro il patrimonio culturale ed economico del paese si limita a evitare danni lievi ed immediati, ma non tiene conto di una prospettiva di salute, vivibilità e abitabilità in termini temporali più estesi e per tuttɜ.
Il ddl sicurezza non ci tutela dall’inquinamento, non promuove azioni di cura e ricostruzione che pervengano, contengano o curino danni all’ambiente e al nostro benessere. Inoltre, non considera come un problema per la sicurezza i seri danni ambientali che diverse multinazionali sono in grado di causare.
Come possiamo essere sicurɜ in un mondo che non ci dà futuro?
Articolo 15
(Esecuzione penale nei confronti di detenute madri)
L’articolo 15 modifica gli articoli 146 e 147 c.p. rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno e disponendo che le medesime scontino la pena, qualora non venga disposto il rinvio, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Inoltre è previsto che l’esecuzione non sia rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti.
L’articolo 15 del DDL riguarda le donne autrici di reato. Oggi, l’art. 146 del codice penale prevede il rinvio obbligatorio della pena detentiva nel caso di donna incinta o madre di un bambino di età inferiore a un anno. Il nuovo articolo, invece, se approvato, eliminerebbe l’obbligatorietà del rinvio della pena creando così un vulnus intollerabile.
La norma in questione è pura propaganda, raccontata come norma “antirom”, che non tiene conto delle statistiche e della realtà effettiva. Il tasso di criminalità femminile è molto inferiore rispetto a quello maschile e, anche nel caso di reati commessi da donne rom e sinti le percentuali sono bassissime.
Questo articolo, e l’intero DDL, è in completa antitesi con qualsiasi accezione di sicurezza, preferisce fare propaganda vendicandosi invece di lavorare verso il reinserimento nella società e la prevenzione. Sulla condizione delle donne che commettono reati non solo pesa l’oppressione sistemica del patriarcato, ma questa è spesso innestata su situazioni di povertà ed esclusione sociale.
È fondamentale quindi garantire servizi, reddito, reti sociali e sistemazioni abitative come unica strada per accedere ad un senso nuovo e diverso di sicurezza per tuttɜ, è necessario garantire una vita degna.
Articolo 26
(Rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari)
L’articolo 26, modificando alcune disposizioni del codice penale, introduce diverse misure riguardanti la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari ovvero:
– il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, di cui al nuovo art. 415-bis c.p.
– l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi di cui all’art. 415 c.p., se commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute;
All’articolo 26 del nuovo DDL Sicurezza introduce il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario. Questo delitto non riguarda soltanto le rivolte violente (già sanzionate prima di questo DDL) ma anche tutte le forme di protesta passiva, compreso lo sciopero della fame.
Nel frattempo, le condizioni nelle carceri sono sempre più insostenibili: quest’anno sempre più spesso abbiamo sentito parlare delle condizioni disastrose delle celle e della violenza delle forze di polizia. In perfetta linea con l’impianto repressivo dell’intero DDL, si vuole anche in questo caso reprimere il dissenso, mentre il diritto a lottare per veder riconosciuti i propri diritti dovrebbe essere inalienabile, anche all’interno delle carceri.
Più che le pene più severe, ciò che ci fa sentire più sicurɜ è la possibilità di ribellarci a un sistema che ci opprime, sapere che ci sarà sempre spazio per la messa in discussione, il dissenso, la contestazione, per la lotta, gli unici strumenti di avanzamento dei diritti civili e sociali.
Articolo 26
(Norme in materia di servizi consultoriali)
Le regioni organizzano i servizi consultoriali nell’ambito della Missione 6, Componente 1, del PNRR e possono avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità.
Durante questa primavera il governo ha approvato un emendamento all’articolo 44 del ddl per attuare il PNRR che agevola la presenza di associazioni di sostegno alla maternità nei consultori. La possibilità di queste presenze era già interna alla legge 194, ma con questo emendamento si ha un esplicito appoggio alla presenza dei gruppi che si oppongono all’interruzione volontaria di gravidanza nella sanità pubblica. Inoltre l’emendamento prevede che non sia il consultorio a selezionare le associazioni da inserire al suo interno, ma direttamente la regione. Questo provvedimento, unito alle prospettive dell’autonomia differenziata, rischia di aggravare sia l’accesso all’aborto in tutto il territorio che le disuguaglianze di questo diritto tra le varie regioni italiane, ancor più di quanto si riscontrino attualmente.
I Centri di Aiuto alla Vita (abbreviati in CAV creando anche confusione coi Centri AntiViolenza), sede operativa del Movimento Per la Vita, sono quasi 400 nel territorio nazionale e molti hanno sede in case di rifugio per donne, nei consultori familiari e in ospedali pubblici. Ma è difficile mappare queste convenzioni e quindi la loro presenza. Così come è difficile reperire informazioni relative a quanti finanziamenti pubblici sono erogati per questo.
Quello che vogliamo sono aiuti e finanziamenti pubblici ai consultori laici, ai centri antiviolenza, come, ad esempio, quelli della rete D.i.Re – gestiti con sempre maggiori difficoltà e fatica – per dare un vero diritto alla prevenzione, alla contraccezione, all’aborto e ai percorsi di maternità e fuoriuscita dalla violenza.