Il fenomeno della vittimizzazione secondaria nei media e a livello giuridico

“[…] la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”

preambolo convenzione Istanbul

La cultura dello stupro che permea la società patriarcale attraversa anche le redazioni dei giornali, i media, le questure e i tribunali. Una persona che ha subito una violenza si trova a dover affrontare un processo giudiziario e uno mediatico dove la sua versione dei fatti viene costantemente messa in discussione, dove l’opinione pubblica tende a giustificare l’azione dell’uomo violento, in processi di colpevolizzazione della vittima e normalizzazione della violenza di genere. Vengono messi in atto strumenti giudiziari e narrativi per rappresentare la violenza di genere come una stranezza, il famoso raptus, e non un problema strutturale, rappresentando l’uomo violento come mostro invece che un prodotto della società patriarcale in cui viviamo. Tutto ciò disincentiva le denunce e crea un ulteriore carico su chi ha già subito una violenza, senza affrontare neanche lontanamente il problema alla radice.

Solo una vera rivoluzione culturale può portare un reale cambiamento della società. 

La parola femminicidio non indica il sesso della morta. Indica il motivo per cui è stata uccisa.

Michela Murgia

Il femminicidio, come anche lo stupro, le molestie, l’abuso psicologico o economico, e tutti i tipi di violenza di genere, esistono all’interno di una dinamica di potere sistemica che vuole la donna e tutte le soggettività diverse dall’uomo cis in una posizione subordinata rispetto a lui. Tutte queste forme di violenza concorrono ad assicurarsi che lo status quo si mantenga, e quando unə prova a sottrarsi da queste dinamiche e denunciarle, o ne è vittima, subentra la vittimizzazione secondaria. In questo editoriale vedremo le sue declinazioni in ambito giuridico e giornalistico, in quanto due settori che dovrebbero avere una responsabilità deontologica ed etica nell’affrontare il tema in maniera adeguata.

Dai primi dati provvisori maggio – luglio 2023 dell’indagine Istat “Stereotipi di genere e immagine sociale della violenza” emerge che:

  • Il 39,3% degli uomini ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole, contro il 29,7% delle donne.
  • Un uomo su cinque (19,7%) pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire rispetto al 14,6% delle donne.
  • Circa l’11% (sia uomini che donne) ritiene che una donna vittima di violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile.
  • Circa il 10% ritiene che se una donna dopo una festa accetta un invito da un uomo e viene stuprata sia anche colpa sua.

Ambito giuridico

La violenza di genere è “l’unico delitto che, in tutto il mondo, ha come principale sospettata la vittima”, dice la giudice Paola De Nicola. All’interno dei tribunali, chi ha subito violenza è spesso costretta a provare di aver realmente subito una violenza. Le istituzioni, che dovrebbero affiancare e assistere la vittima, la costringono a subire ulteriori umiliazioni, creando un immotivato senso di vergogna e di disagio. Il radicamento di stereotipi di genere permea le aule dei tribunali, dove la violenza subita da una donna viene messa in dubbio per via del suo abbigliamento, della sua biancheria intima, di un suo eventuale stato di alterazione. A tutto ciò si riferisce il victim blaming, strumento retorico che inverte i ruoli, dando responsabilità alla donna della violenza e rendendo l’uomo una sua “vittima”. 

Non bastano misure tecnico-giuridiche: la giustizia e le istituzioni devono cambiare il loro linguaggio e rinnovare la narrazione che fanno della violenza per contrastare la sfiducia che le donne hanno nei loro confronti. 

L’indagine qualitativa della rete D.i.Re con il contributo delle organizzazioni socie, ha analizzato la situazione di 5.740 donne e conferma questa diffidenza nei percorsi giudiziari. Il 27% delle donne che ha affrontato un processo quando ha denunciato ha subito vittimizzazione da parte delle forze dell’ordine nel 93% dei casi e nel 60% anche da parte dei servizi sociali. Il linguaggio e i modi di chi dovrebbe accogliere queste esperienze, quindi, spesso rappresentano il primo ostacolo non solo all’inizio di un processo, ma anche all’emersione vera e propria della violenza.

Questo non può che portare a una tendenza a non denunciare, dato che l’esito spesso è solo un rivivere il trauma senza alcuna conseguenza per chi l’ha causato.

Il ruolo della vittima all’interno di un processo per violenza di genere ha un carattere particolare e fondamentale: non è solo una parte nel processo, ma è anche la principale prova del reato. Diventa fondamentale la sua capacità di elaborare la propria esperienza  e di raccontarla nell’ostile ambiente dell’aula di tribunale.

Il problema è che la violenza contro le donne, e in particolare la violenza all’interno di una relazione intima, costituisce per le sue vittime un’esperienza biografica personale caratterizzata invece da una sorta di congenito «deficit di narratività», dal momento che «interessa ambiti dell’esperienza comune che non si prestano a una narrazione ricca e significativa»
Che genere di sentenze? La rappresentazione giuridica della violenza contro le donne di Luca Massidda

La donna per difendersi deve essere psicologicamente preparata, capace di sostenere il peso della sua testimonianza e sempre visibilmente credibile e autentica. Questi atteggiamenti rendono il processo una performance nella quale è difficilissimo trovare un equilibrio tra narrazione giuridico-tecnica e narrazione personale, difficile, della violenza subita.

Il racconto della violenza e il vissuto personale della donna vengono messi al centro dei processi, con la conseguenza che l’accuratezza, la credibilità e il carattere dimostrati nella testimonianza diventano degli elementi alla base della sentenza e per dimostrare il fatto. Ma questi elementi riproducono una rappresentazione stereotipata della donna, delle relazioni di genere e della violenza.

L’autenticità della vittima e della sua storia è così misurata sul parametro della norma sociale, della sua eventuale corrispondenza con l’immagine socialmente definita della “vittima ideale. […] Una norma però che dietro la sua presunzione di neutralità nasconde radicati bias di genere. Nel momento in cui le nostre aspettative di ruolo sono condizionate da «il filtro del sessismo» diventa infatti decisiva nella valutazione della credibilità della vittima la sua «conformità alle norme di genere tradizionali, in particolare a quelle che regolano il comportamento sessuale»”. (Che genere di sentenze? La rappresentazione giuridica della violenza contro le donne di Luca Massidda)

Lo stereotipo giudiziario è l’attribuzione, da parte degli operatori del diritto, a un individuo delle caratteristiche o dei ruoli specifici in ragione della sua appartenenza a un particolare gruppo sociale. Gli stereotipi e i pregiudizi di genere nel sistema giudiziario sono stati identificati come seri ostacoli al pieno godimento dei diritti umani da parte delle donne, perché «impediscono l’accesso delle donne alla giustizia in tutti i settori del diritto e possono avere un impatto particolare sulle donne vittime e sopravvissute alla violenza» (Comitato CEDAW, General Recommendation No. 19, Violence against women, https://www.un.org/womenwatch/daw/cedaw/recommendations/recomm.htm.)

Gli stereotipi distorcono la realtà dei fatti e portano a decisioni basate su pregiudizi, anche individuali e personali, e standard che penalizzano coloro che non si conformano a questi modelli. Ciò compromette nella sostanza l’imparzialità del sistema giudiziario ed espone le donne alla vittimizzazione secondaria.

Nel linguaggio utilizzato nelle sentenze si può vedere la massima espressione dell’impatto degli stereotipi di genere in ambito legale: il raptus, la gelosia, la paura del rifiuto come elemento scatenante e validi.

In una sentenza del 2017 del tribunale di Civitavecchia, emerge chiaramente la centralità ai fini del processo dell’elemento della gelosia :

Il testimone: «il teste conferma che l’imputato era ossessionato dalla gelosia»; la vittima: «spiega come l’iniziale gelosia si era trasformata in una vera e propria pretesa di possesso»; il giudice nelle conclusioni argomentate nella sentenza: «il delitto può essere integrato dal continuo ed invasivo controllo da parte del marito, divorato da una patologica ed incontenibile gelosia nei confronti della moglie». Più avanti la sentenza parla ancora di «indagato accecato dal possesso verso la convivente».

Gli Stati Parti prendono ogni misura appropriata per modificare i modelli socio-culturali di comportamento degli uomini e delle donne, al fine di conseguire l’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di ogni altro genere che sono basate sull’idea dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o su ruoli stereotipati per gli uomini e per le donne

art. 5 convenzione CEDAW

La Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne (CEDAW), in vigore in Italia dal 1985, e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione della lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul), in vigore in Italia dal 2014, sostanzialmente non sono applicate. Questo perché manca nel nostro Paese un riconoscimento effettivo della violenza come fenomeno sistemico e mostra la distanza che ancora separa il principio giuridico, nella sua massima declinazione, dalla pratica quotidiana del lavoro dentro le aule di tribunale.

Nel primo rapporto sull’Italia il GREVIO, organismo di monitoraggio dell’applicazione della Convenzione di Istanbul nei paesi membri del Consiglio d’Europa, evidenzia che la risposta dell’Italia alla violenza di genere continua ad essere prevalentemente guidata dall’idea di inasprire le pene, senza fornire un’attenzione adeguata alla dimensione preventiva e protettiva delle politiche. Il GREVIO inoltre stigmatizza il permanere «nelle decisioni delle corti, in tema di violenza domestica, di stereotipi che riducono la violenza nelle relazioni di intimità a un conflitto: considerare a priori entrambe le parti responsabili della violenza, ignorando il differenziale di potere che deriva dall’uso della violenza in sé. Emerge inoltre una tendenza a dare credito a stereotipi e credenze che considerano la relazione di intimità intrinsecamente basata su sottomissione, controllo, possesso; presupporre automaticamente che le donne che si separano sono motivate da intento vendicativo nei confronti del partner che vogliono punire» (GREVIO, Baseline Evaluation Report Italy, Gennaio 2020)

LA DESCRIZIONE DELLA VITTIMA
Nella descrizione e valutazione della testimonianza dalla parte offesa, bisogna evitare l’enfasi sullo stato emotivo o sulla descrizione della vita privata, sia affettiva che sessuale. Quello che succede, invece, è che questi aspetti sono esaltati per condurre a un giudizio della vittima come, ad esempio, vulnerabile o inaffidabile, allontanando dal giudizio vero e proprio il fatto oggetto del processo. 
«la minore è munita di una personalità sessualmente esuberante, proattiva e molto disinibita [ha] attitudine a intrattenere molteplici relazioni sentimentali non solo con *** e ***, ma anche con un certo ***» (RM 2015, n.43, Violenza sessuale, produzione materiale pedopornografico)». 

L’ESPLICITAZIONE DEL CONSENSO
«I difensori hanno dedotto […] che se si dovesse ritenere provata la condizione di inferiorità psichica della persona offesa, l’imputato ha posto in essere la sua condotta nell’erronea supposizione di un valido consenso da parte della ragazza al compimento di atti sessuali determinata dal sicuro e disinvolto comportamento della stessa che lo ha indotto in errore circa il grado di maturità (RM 2016, s.56, Violenza sessuale, Abusi su minore).»

LA RAPPRESENTAZIONE DI CHI COMMETTE VIOLENZA 
E necessario evitare di descrivere nella persona che commette violenza una passione ingovernabile – data per “naturale” – che prevale sulla ragione. Così intesi, sentimenti e stati emotivi diventano la chiave per giustificare la violenza – “se comprovata” – o a non condannarla – laddove vi sono margini per farlo. 
«la gelosia […] determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il perito descrisse come “una soverchiante tempesta emotiva e passionale” (…) misura idonea a influire sulla responsabilità penale». (RDN. 2018, s. 23 Femminicidio)
«la persona che in una foto teneva una mano sulla bocca era ****, e forse la teneva sul viso per svegliarla. La foto che ritrae la donna a terra seminuda è relativa a quando si stava riposando. Quanto alla frase in cui si sente dire alla **** “basta basta” secondo **** tali parole erano solo una dimostrazione di appagamento sessuale. Quando le aveva detto “zitta troia” non lo aveva fatto per disprezzo ma preso dall’enfasi del rapporto sessuale» (RDN s. 20 Violenza sessuale di gruppo 2015).

Giornali

L’opinione pubblica si forma anche attraverso la cronaca, per cui le modalità con cui vengono narrati i femminicidi e le violenze incidono sulla percezione che le persone hanno di questi. Quando la violenza viene normalizzata dai media, quando si parla di bravi ragazzi che sono impazziti tutti d’un tratto e di cattive ragazze che se la sono cercata, di ragazze che non avrebbero dovuto ubriacarsi o tornare a casa, di notte, da sole, di ragazze maliziose e vestite in maniera non adeguata, allora si alimenta una narrazione distorta della realtà e dei fatti. Questo linguaggio violento è vittimizzazione secondaria.

Articolo 5-bis
Rispetto delle differenze di genere
Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista:
a) presta attenzione a evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona;
b) si attiene a un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Si attiene all’essenzialità della notizia e alla continenza. Presta attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Non usa espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso;
c) assicura, valutato l’interesse pubblico alla notizia, una narrazione rispettosa anche dei familiari delle persone coinvolte.

Testo Unico dei doveri del giornalista, Ordine dei giornalisti, 2020

Contrariamente a quanto sopra, spesso la vittima viene descritta come colpevole, o almeno in parte responsabile, di quel che le è accaduto.

Portiamo in esempio un articolo de Il giornale dove leggiamo de “Il gigante buono e quell’amore non corrisposto”. Salta subito all’occhio la descrizione dell’assassino: il messaggio che ne verte è che lui fosse un buono, un bonaccione, che ha incontrato una donna però colpevole di non ricambiare i suoi sentimenti. Il movente poi, è l’amore, perpetuando l’ambiguità tra l’emozione e l’azione, tra quel che è giusto e tollerabile in una relazione e quel che non lo è. 

Distorta è anche la narrazione del recente femminicidio in cui Filippo Turetta ha ucciso con 22 coltellate la ex fidanzata Giulia Cecchettin. Il Messaggero sceglie di riportare le parole dell’avvocato di Turetta come titolo del proprio articolo: “Un ragazzo buono, le voleva bene e le faceva i biscotti”. Al lettore non resta altro che immaginare un giovane innamorato che cucina per lei, che se ne prende cura con atti d’amore, che ha sbagliato per un raptus forse, un caso tragico, un grave errore, circoscrivendo la morte della Cecchettin in una situazione di eccezionalità. 

Il Mattino, per il delitto di Roveredo del 25 novembre 2020, giorno in cui si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sceglie di intitolare uno dei suoi articoli così: “Roveredo, Aurelia uccisa dal compagno, la mamma difende il figlio: <<Lei sempre al telefono, veniva trattato come un cane>>”.

Allo stesso modo il Corriere Adriatico scegliere di dedicare un intero articolo alla vita dell’assassino (“Filippo Turetta, le origini: l’infanzia, il trasferimento, il ristorante di famiglia e le scuole a Torreglia dove abita”), cercando di far provare al lettore empatia nei suoi confronti, portando chi legge a formulare fantasiose ipotesi di diagnosi. Cercare quel che non andava e che lo ha fatto da un momento all’altro scoppiare, come fosse il personaggio di un romanzo coinvolgente, veicola l’attenzione morbosa non più verso la vittima, ma verso il suo carnefice.

Così facendo, i giornali prendono una posizione non neutrale, sia sul singolo caso che in termini generali, e si schierano in favore di questi pregiudizi. Invece, la nostra inamovibile posizione, costruita sulla costante analisi di dati fattuali e di quotidiane esperienze, ci permette di urlare che la violenza di genere è sistemica, trasversale e permea la nostra società fino alla radice. 

Ancora troppo spesso un femminicidio viene ridotto al raptus, creando diverse distorsioni. 

In primo luogo, si deresponsabilizza l’assassino, che diventa vittima di emozioni che non riesce a controllare, e viene giustificato. L’aggressività viene stereotipata come emozione più forte negli uomini, in loro connaturata.

In secondo luogo, si sminuisce il fenomeno del femminicidio, descrivendo ogni evento come casi isolati, eccezionali e imprevedibili. 

In terzo luogo, questo porta i lettori a pensare che sia la donna ad averlo fatto impazzire, tornando dunque alla colpevolizzazione della vittima. 

Qua trovate una carrellata (non esaustiva) di articoli e titoli di giornale che commettono vittimizzazione secondaria.

A novembre, dopo l’intervista violenta che Nunzia De Girolamo ha fatto alla ragazza sopravvissuta allo stupro di Palermo, il mondo del giornalismo si è espresso contro la vittimizzazione secondaria perpetrata dalla stampa, con una lettere aperta diretta alla RAI, vi lasciamo qua il link.
Lettera Aperta RAI

Vi lasciamo delle fonti con delle linee guida su come parlare della violenza di genere:

In questi giorni, dopo il 103esimo femminicidio di quest’anno, abbiamo assistito a un’enorme presa di coscienza collettiva sulla matrice sistemica della violenza maschile contro le donne. Per risolvere il problema alla radice, per impedire nuove morti e nuove violenze, non servono inasprimenti delle pene ma reali progetti di educazione nelle scuole, formazione e aggiornamento sui luoghi di lavoro, serve combattere ogni manifestazione di violenza, a partire proprio da quelle che si tende più a sottovalutare. La società patriarcale dispone di tantissimi strumenti per controllare il corpo delle donne, vanno tutti abbattuti, per sconfiggere il patriarcato.